MASSIMA
Sono legittime le clausole statutarie di s.p.a. e di s.r.l. che impongono un “tetto minimo” di possesso delle azioni o delle partecipazioni sociali. Esse possono essere configurate: (i) come regole di circolazione delle partecipazioni, che rendono il trasferimento inefficace nei confronti della società in tutti i casi in cui, per effetto del trasferimento, l’acquirente non consegua il possesso minimo ovvero il venditore lo perda; (ii) come regole che subordinano la legittimazione all’esercizio di parte dei diritti sociali alla titolarità di un numero di azioni o di una quota di partecipazione almeno pari o superiori al possesso minimo.
La delibera di modifica dello statuto che introduce questo secondo tipo di clausole deve essere adottata, oltre che con le maggioranze richieste dalla legge e dallo statuto, anche con il consenso dei soci che siano titolari di un numero di azioni o di una partecipazione inferiori al possesso minimo richiesto dalla nuova clausola statutaria.
MOTIVAZIONE
1. – Regole di possesso minimo di partecipazioni sono rinvenibili nell’ordinamento in alcuni casi, seppur con natura e finalità tra loro diverse. Si pensi anzitutto all’art. 30, comma 5-bis, TUB, laddove, in relazione alle banche popolari si sancisce che: “Per favorire la patrimonializzazione della società, lo statuto può subordinare l’ammissione a socio, oltre che a requisiti soggettivi, al possesso di un numero minimo di azioni, il cui venir meno comporta la decadenza dalla qualità così assunta”. In modo analogo e con rilevanza del tutto simile, si pone altresì l’art. 34, comma 4-bis, TUB, relativo alle banche di credito cooperativo, in forza del quale “Lo statuto può prevedere, tra i requisiti per l’ammissione a socio, la sottoscrizione o l’acquisto di un numero minimo di azioni” (enfasi aggiunte).
In diversa prospettiva, si può altresì ricordare l’art. 17 d.lgs. 175/2016, ai sensi del quale: “Nelle società a partecipazione mista pubblico-privata la quota di partecipazione del soggetto privato non può essere inferiore al trenta per cento e la selezione del medesimo si svolge con procedure di evidenza pubblica” (pur essendo evidente che in questo caso la soglia minima non attiene al singolo socio, dovendosi intendere l’espressione “soggetto privato” come l’insieme dei soci diversi dall’amministrazione pubblica).
Giova altresì ricordare che altre norme in tema di società per azioni (ad esempio gli artt. 2367, comma 1, 2377, comma 3, 2408, comma 2, e 2409, comma 1, c.c.) prevedono che l’esercizio di alcuni diritti sociali (convocazione su richiesta dei soci, impugnazione di delibere annullabili, denunzia di fatti censurabili al collegio sindacale, denunzia al tribunale per gravi irregolarità) sia subordinato al possesso di una determinata quota minima di partecipazione al capitale, ancorché non necessariamente da parte del medesimo socio.
Si può dunque rilevare che l’ordinamento giuridico, di per sé, riconosce rilevanza al possesso minimo di azioni o quote, per taluni tipi societari o per l’esercizio di taluni diritti sociali. Inoltre, appare evidente che la determinazione di una “soglia minima” di rilevanza della partecipazione sociale rappresenta senz’altro una scelta a disposizione dell’autonomia negoziale e statutaria.
Si pensi alla possibilità, nelle s.r.l., di stabilire la indivisibilità delle partecipazioni sociali al di sotto di una determinata misura (espressa in termini di valore nominale o di frazione del capitale sociale). Si tratterebbe di una clausola con effetti più limitati e circoscritti rispetto alle clausole di indivisibilità assoluta delle quote di s.r.l., anch’esse pacificamente ritenute legittime dalla dottrina e dalla giurisprudenza. In modo analogo, del resto, anche nelle s.p.a. il possesso minimo di una determinata percentuale del capitale sociale può essere ottenuto fissando un valore nominale delle azioni particolarmente elevato, ab initio o a seguito di raggruppamento successivo. È infatti evidente che non vi sia sostanziale differenza – da un punto di vista meramente quantitativo – tra prevedere un possesso minimo di 100 azioni da 1 euro e fissare il valore nominale delle azioni a 100 euro.
Dall’art. 2525, comma 1, c.c., in tema di cooperative (“Il valore nominale di ciascuna azione o quota non può essere inferiore a venticinque euro né per le azioni superiore a cinquecento euro”) può altresì ricavarsi, a contrario, che neppure vi sia un tetto massimo oltre il quale le clausole che impongono il possesso minimo possano ritenersi illegittime. Il fatto che il legislatore abbia stabilito un tetto massimo soltanto nelle cooperative (alle quali ai sensi dell’art. 2519 co. 1 c.c., si applica in quanto compatibile la normativa sulle società per azioni) implica che un limite analogo non operi, nel silenzio della legge, per le altre società.
Alla luce di queste considerazioni e dei riferimenti normativi ricordati, deve pertanto riconoscersi l’ammissibilità delle clausole in esame, le quali realizzano, in particolare e salvo altri, l’interesse di non frammentare eccessivamente il capitale sociale, anche al fine di semplificarne la gestione organizzativa, interesse da ritenersi meritevole di tutela.
2. – Come indicato nella massima, le clausole che impongono un “tetto minimo” al possesso delle azioni o delle quote possono assumere una diversa configurazione: (i) in primo luogo, esse possono declinarsi come limiti alla circolazione delle azioni, con la conseguenza che esse trovano rimedio, in caso di loro violazione, alla stregua di ogni altro acquisto di partecipazione compiuto senza rispettare le regole statutarie: se, infatti, l’acquirente non consegue il possesso minimo o il venditore lo perde, il trasferimento è inefficace nei confronti della società; (ii) in secondo luogo, esse possono assumere rilevanza a prescindere dalla vicenda di circolazione delle azioni o quote, e quindi valere per tutti i soci in qualsiasi momento della vita della società, quale “requisito” necessario per conseguire la legittimazione all’esercizio dei diritti sociali.
Questa seconda configurazione della clausola del “tetto minimo” al possesso delle azioni o delle quote presenta profili di criticità, in ordine alla possibilità di subordinare al conseguimento e mantenimento del possesso minimo la legittimazione all’esercizio dei diritti sociali e financo l’assunzione del c.d. status socii. A ben vedere, infatti, non pare ammissibile subordinare o far venir meno lo status socii nei confronti di quei soggetti che hanno sottoscritto o acquistato una partecipazione sociale che – sin dall’origine o anche successivamente – non rispetti il “tetto minimo” stabilito dallo statuto per il possesso delle azioni o quote. Ci si troverebbe infatti nella condizione di dover giustificare l’esistenza di una o più partecipazioni sociali che non consentono l’esercizio di alcun diritto, ponendo pertanto un serio problema di giustificazione causale e di compatibilità con la disciplina societaria.
Si noti, del resto, che siffatta situazione sarebbe profondamente differente rispetto a quella derivante dall’inosservanza della clausola del “tetto minimo” allorché essa sia configurata come un limite alla circolazione delle azioni o quote. È vero che anche in tal caso potrebbe darsi la situazione in cui un soggetto, che si renda acquirente di un numero di azioni o di una partecipazione inferiore al tetto minimo, non venga riconosciuto come nuovo socio dalla società, la quale poterebbe opporre la violazione della clausola stessa. Tuttavia, in questo caso, non si darebbe luogo a una “partecipazione sociale senza diritti”, in quanto la società continuerebbe a riconoscere come titolare della partecipazione alienata (in violazione della clausola del tetto minimo) il socio alienante, il quale sarebbe pertanto legittimato a esercitare i diritti sociali da essa derivanti, a prescindere dalla regolamentazione dei rapporti interni con il soggetto acquirente (non riconosciuto come nuovo socio dalla società).
Ne consegue che si deve ritenere in linea di principio incompatibile con la disciplina societaria una clausola del “tetto minimo” del possesso di azioni o quote che subordini il riconoscimento dello status socii al rispetto del limite minimo di possesso. Analogamente – anche sulla scorta dell’analisi di quanto dispone la legge nei casi in cui essa prevede la possibilità di stabilire limiti minimi al possesso azionario (si vedano i citati artt. 30 e 34 TUB) – si deve ritenere inammissibile un “tetto minimo” la cui inosservanza faccia venir meno gli essenziali diritti patrimoniali derivanti dalla partecipazione sociale o a maggior ragione la totalità di essi.
Con il che, sembra di poter dire che la clausola statutaria del “tetto minimo” al possesso di azioni o quote possa essere sì configurata come “requisito per la legittimazione dei diritti sociali”, ma possa avere ad oggetto solo una parte dei diritti sociali, limitatamente ai diritti sociali che siano disponibili dall’autonomina statutaria, quali il diritto di voto, il diritto di intervento in assemblea, il diritto di chiedere la convocazione dell’assemblea, ecc. In questa disamina, occorre ovviamente tenere in considerazione la disciplina propria di ciascun tipo sociale, nonché l’effetto che la clausola produrrebbe in ordine all’insieme dei diritti spettanti alle singole partecipazioni sociali.
3.– La massima affronta infine il tema dell’introduzione in statuto della clausola del “tetto minimo” al possesso delle azioni o delle quote, allorché essa sia configurata, come nel caso da ultimo considerato, quale requisito della legittimazione all’esercizio di alcuni diritti sociali. La questione diviene più problematica allorché uno o più soci si trovino, nel momento di introduzione della clausola, al di sotto del “tetto minimo”. Appare in questo caso necessario che la delibera sia adottata, in conformità alla precedente massima n. 99 in tema di riscatto, col voto favorevole di tali soci, poiché si incide non solo sul profilo organizzativo della società, ma si introducono limitazioni incidenti esclusivamente sulla posizione di alcuni soci, a differenza di altri, in violazione del principio di parità di trattamento.
Si può altresì aggiungere che, in caso di introduzione in statuto delle clausole oggetto della massima, sarà opportuno effettuare un coordinamento con le regole in tema di trasferimento mortis causa e prevedere meccanismi di riscatto o di esclusione, ove possibile. Sotto altro profilo, diverso da quello connesso all’interesse ad evitare l’eccessivo frazionamento della compagine sociale, si sottolinea che, qualora la clausola preveda la sola facoltà, e non l’obbligo, di pervenire all’exit su iniziativa della società o degli altri soci, potrebbe essere inoltre utile inserire in statuto un diritto di recesso in capo al socio che sia sceso al di sotto della soglia per ragioni non direttamente a lui imputabili, ad esempio in conseguenza di un aumento di capitale sociale a pagamento da altri sottoscritto a fronte del mancato esercizio, da parte sua, del diritto di opzione/sottoscrizione.
Deve infine ritenersi che l’introduzione, la modifica o l’eliminazione a maggioranza delle clausole del “tetto minimo” al possesso di quote di s.r.l. non dia luogo ad alcuna causa legale di recesso, salvo che lo statuto disponga diversamente. Nelle s.p.a., invece, il diritto di recesso sarà inevitabilmente configurabile per il caso in cui la clausola sia stata declinata come regola che subordina la legittimazione all’esercizio di parte dei diritti sociali al conseguimento o al mantenimento del possesso minimo (e ciò trattandosi di una “modifica dei diritti di voto o di partecipazione” ai sensi dell’art. 2437, comma 1, lettera g, c.c.). Diversamente, laddove essa assuma la natura do regola di circolazione delle azioni, darebbe luogo a una causa di recesso legale ma derogabile, ai sensi dell’art. 2437, comma 2, lettera b), c.c.
NOTA BIBLIOGRAFICA
1.– Non si rinvengono contributi dottrinali e pronunce giurisprudenziali espressamente dedicati al tema della clausola di “tetto minimo” al possesso azionario nella disciplina generale delle s.p.a. e delle s.r.l. Gli unici autori che – per quanto risulta – hanno sfiorato la tematica, non si sono peraltro occupati precisamente del rapporto tra possesso minimo e acquisto della qualità di socio; tra di essi, si vedano: M. Stella Richter jr., Partecipare intervenire e assistere alle adunanze degli organi collegiali delle società azionarie, in Riv. Soc., 2013, 5, pp. 892 ss., il quale ha osservato che la clausola statutaria che subordina la legittimazione all’intervento in assemblea e al voto al possesso minimo di un certo numero di azioni è lecita solo laddove si consideri l’art. 2370, comma 1, derogabile, senza tuttavia prendere posizione sul punto; A. Morano, La costituzione in pegno di azioni e quote di società di capitali, in Riv. Not., 2004, 5, p. 1158, il quale ha sostenuto che le clausole che subordinano l’esercizio di diritti amministrativi diversi dal voto al possesso di un certo numero di azioni non sono operative in sede di escussione del pegno.
2.– Non mancano invece alcuni commenti alle norme che prevedono il “tetto minimo” nella disciplina speciale delle banche popolari (art. 30, comma 5-bis, TUB) e delle banche di credito cooperativo (art. 34, comma 4-bis, TUB). Tra di essi si vedano: R. Costi – F. Vella, Commentario breve al testo unico bancario, in Breviaria Iuris, fondato da G. Cian e A. Trabucchi, CEDAM, 2019, 147 ss. (sub art. 30) e 160 ss. (sub art. 34), in cui si evidenzia la ratio dell’art. 34 e cioè favorire l’incremento della patrimonializzazione delle banche di credito cooperativo nell’ottica di garantire una loro maggiore stabilità; viene, inoltre, precisato che la fissazione di un tetto minimo azionario deve seguire criteri non discriminatori e conformi allo scopo mutualistico e all’interesse della società; L. Mancinelli, sub Art. 30, in Commentario al Testo Unico delle Leggi in materia bancaria e creditizia, diretto da F. Capriglione, CEDAM, 2018, tomo I, 320 ss.; L. Mancinelli- M. Pellegrini, sub Art. 34, in Commentario al Testo Unico delle Leggi in materia bancaria e creditizia, cit., 356 ss.; R. Costi, Verso una evoluzione capitalistica delle banche popolari?, in Banca, borsa e tit. cred., 2015, I, 579. Riguardo l’opposto limite del “tetto massimo” fissato dall’art. 30 co. 2 TUB si veda inoltre M. Bodellini, L’eterno dilemma della corporate governance della Banca Popolare di Milano, in Contratto e Impresa, 4-5/2014, 1121 ss.
3.– Può essere utile segnalare la presenza di contributi riguardanti l’opposta (ma affine) clausola di “tetto massimo” al possesso azionario: a tal riguardo L. Stanghellini, Commento all’art. 2355-bis, in M. Notari (a cura di), Azioni (artt. 2346 – 2362 c.c.), in Commentario alla riforma delle società, diretto da P. Marchetti – L.A. Bianchi – F. Ghezzi – M. Notari, Milano, 2008, pp. 561 ss., sostiene che questa clausola si pone sul medesimo piano delle clausole limitative della circolazione delle azioni ai sensi dell’art. 2355-bis c.c., fatta salva la precisazione (in punto di qualificazione della natura del limite alla circolazione) che essa “è strutturalmente identica alle altre clausole statutarie: essa non limita la circolazione delle azioni, ma solo, al pari delle altre, l’iscrizione nel libro dei soci e […] l’esercizio dei diritti sociali diversi da quello alla riscossione del dividendo deliberato. […] La clausola costituisce una variante rafforzata della clausola statutaria, oggi esplicitamente ammessa dall’art. 2351, comma 3, che limita il diritto di voto ad una misura massima”.
In senso analogo, ossia di ricondurre la clausola di limite al possesso azionario al disposto dell’art. 2355-bis c.c., si vedano altresì M. Notari, in AA. VV., Diritto delle società. Manuale breve, 3a ed., Milano, 2006, p. 152; Consiglio Notarile di Firenze, Pistoia e Prato, Massima 13, la quale peraltro afferma che tale previsione non realizza “l’effetto di chiusura” e non richiede pertanto alcun correttivo. G.A.Rescio, Tetti di voto, tetti di partecipazione, in Riv. Dir. Soc., 2/2016, 296-297, invece, osserva che non è possibile qualificare aprioristicamente questa clausola come limitazione alla circolazione delle partecipazioni o come regola che condiziona la legittimazione all’esercizio dei diritti sociali, dipendendo il suo inquadramento dalle finalità di volta in volta perseguite e anche dalle condizioni poste dal mercato di eventuale quotazione (ad esempio, il regolamento di Borsa Italiana S.p.A. – art. 2.1.3 co. 2 lett. c) – richiede che gli strumenti finanziari siano liberamente negoziabili) e ritiene che “nel silenzio della clausola […] essa non comporti alcun limite alla circolazione” (corsivo dell’Autore).
Sempre in tema di limite massimo al possesso delle partecipazioni sociali, si rinvengono altresì i due seguenti interventi nell’ambito delle attività dell’ufficio studi del Consiglio Nazionale del Notariato. A. Ruotolo, Soppressione della clausola statutaria sul limite al possesso azionario e diritto di recesso, CNN – Risposta a Quesito n. 47-2010/I, in CNN Notizie 23 marzo 2010, a cui si rinvia per l’excursus concernente le posizioni dottrinali in materia anteriori alla riforma del 2003 e in cui si legge che “Anteriormente alla riforma […] si è affermato come la clausola relativa al limite al possesso azionario non attenga, di norma, salva cioè una sua specifica, diversa formulazione, al profilo circolatorio del negozio di acquisto, ma ad un momento diverso e successivo, quello del possesso. Pertanto, fissato un limite partecipativo, il socio può validamente acquistare una partecipazione (tenuto conto anche di quella anteriormente già posseduta) al di sopra di tale tetto. Solo che il superamento del tetto incide sulla posizione organizzativa del socio nella società, per cui si rende necessario distinguere la partecipazione, per così dire, pura e la partecipazione «spuria» (quella eccedente il limite). Il socio viene ad essere titolare come di una sorta di doppia partecipazione: una a valenza piena, e l’altra rilevante esclusivamente sul piano patrimoniale […]. La tesi sembra prevalente anche successivamente all’entrata in vigore del d.lgs. 6/2003), potendosi in questa sede rilevare come la norma che corrobora la soluzione positiva in ordine all’ammissibilità del limite al possesso di azioni nelle società chiuse incentri la fattispecie paradigmatica proprio sul fatto del possesso e del conseguente esercizio del diritto sociale piuttosto che sulla vicenda del trasferimento”. Il quesito conclude riportando che “l’introduzione così come la soppressione della clausola statutaria sul limite al possesso di azioni sia inquadrabile nell’ambito delle modificazioni relative ai “diritti di partecipazione”, e, come tale, sia causa inderogabile di recesso” (ai sensi dell’art. 2437 co. 1 lett. g); A. Paolini – A. Ruotolo – D. Boggiali, Delibera assemblea dei soci di S.p.A. di determinazione di tetto massimo di azioni sotto condizione risolutiva, CNN – Risposta a Quesito di Impresa n. 86-2015/I, in CNN Notizie del 22 luglio 2015, ove si conferma quanto già espresso nel precedente quesito del 2010 sopra richiamato e si aggiunge una riflessione sull’ipotesi di circoscrivere la portata della nuova clausola ai soli acquisti futuri, senza intaccare chi è già socio e non rispetta i limiti prescritti dalla clausola al momento della sua introduzione; sul punto si legge che “[l]a regola che si vorrebbe introdurre […] non sembra individuare in via generale e astratta i soggetti destinatari della particolare disciplina ivi prevista (con riferimento a tutti i soci, o a tutte le azioni, o a singole categorie di queste ultime; […]), bensì li seleziona con riferimento alla composizione della compagine sociale in un dato momento storico (i soggetti che risulterebbero titolari di una certa partecipazione al momento dell’assunzione della deliberazione sarebbero sottratti all’applicazione della disciplina). La clausola, dunque, risulterebbe in contrasto con il principio di parità di trattamento dei soci – rectius, delle azioni”.
4.– Si ricorda infine che la clausola del “tetto massimo” al possesso delle azioni era stata prevista in sede di “privatizzazioni” a metà degli anni ’90, in forza dell’art. 3 d.lgs. 332 del 31 maggio 1994, convertito con modifiche dalla l. 474 del 30 luglio 1994. Sul tema, si vedano, per tutti, M. Clausi, Profili giuridici delle privatizzazioni, in Giur. Mer., 1999, XXXI, 441 ss.; G. Di Fiore, Privatizzazioni e interesse pubblico tra efficienza e garanzie, in Notariato, 4/2001, 403 ss. (in particolare nota 40); L. Scipione, Le regole in materia di misure difensive tra vecchia e nuova disciplina dell’opa, in Le Società, 5/2009, 589 ss.; inoltre, per un’analisi dell’evoluzione della materia G. Scarchillo, Dalla Golden Share al Golden Power: la storia infinita di uno strumento societario. Profili di diritto europeo e comparato, in Contratto e Impresa / Europa, 2-2015, 619 ss. [nota bibliografica a cura di Luca Arlati].