Consiglio Notarile di Milano

Massime Commissione Società

125. Aumento di capitale e compensazione di crediti (artt. 2342, 2343, 2343-ter e 2465 c.c.) [5 marzo 2013]

Massime Commissione Società

Massima n.125

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5 Marzo 2013

Aumento di capitale e compensazione di crediti

(artt. 2342, 2343, 2343-ter e 2465 c.c.)

MASSIMA

     L’obbligo di conferimento di denaro in esecuzione di un aumento di capitale di s.p.a. o s.r.l. può essere estinto mediante compensazione di un credito vantato dal sottoscrittore verso la società, anche in mancanza di espressa disposizione della deliberazione di aumento.
     Tale compensazione, qualora sia legale e abbia quindi a oggetto debiti certi, liquidi ed esigibili ai sensi dell’art. 1243 c.c., non richiede il consenso della società, nemmeno nel momento in cui viene eseguita la sottoscrizione.
     Qualora il sottoscrittore intenda invece avvalersi, a tali fini, di un credito certo e liquido, ma non esigibile, la compensazione richiede il consenso della società ai sensi dell’art. 1252 c.c.
     La compensazione tra il debito per il conferimento in denaro e un credito vantato dal sottoscrittore nei confronti della società può avere luogo, secondo quanto sopra esposto, anche qualora tale credito sia sorto da una prestazione di natura non finanziaria (ad esempio, la vendita di un bene alla società). In tal caso – allorché ricorra sostanziale contestualità e corrispondenza tra la prestazione eseguita a favore della società e l’aumento di capitale sottoscritto dal creditore, ovvero quando risulti che le due operazioni sono tra loro preordinate – si reputa che la sussistenza di una relazione di stima eseguita nel rispetto delle disposizioni di cui agli artt. 2343, 2343-ter o 2465 c.c. costituisca elemento idoneo ad assicurare l’osservanza dei principi che presiedono alla corretta formazione del capitale sociale.

 

MOTIVAZIONE

     La massima affronta il tema dell’utilizzo, per la liberazione dell’aumento di capitale, di crediti vantati dal sottoscrittore verso l’emittente, cioè verso la società che ha deliberato l’aumento stesso.
     La fattispecie, con evidenza, non coincide con la figura, disciplinata dalla legge, del conferimento di crediti, che si caratterizza per essere, il debitore, soggetto terzo, diverso dall’emittente; consiste invece nella preesistenza di un debito certo e liquido della società verso il sottoscrittore, debito che – al momento della sottoscrizione dell’aumento in denaro – forma oggetto di compensazione con il credito della società per la liberazione dell’aumento stesso.
     Se il debito della società è pecuniario, liquido ed esigibile, la compensazione potrà operare, in applicazione dell’art. 1243 c.c., a prescindere (i) da una espressa previsione, nella delibera di aumento, di tale possibilità, e (ii) da una qualsiasi forma di consenso, da parte dell’organo di gestione della società che riceve la sottoscrizione. Il modo di estinzione dell’obbligazione, infatti, opera in questa situazione in via automatica, ricorrendo tutti i presupposti della compensazione legale disciplinata dal codice civile.
     Qualora il debito della società non presenti invece il carattere della esigibilità (e di ciò potrebbe aversi evidenza anche consultando lo stato patrimoniale del bilancio, a ragione della separata indicazione prevista dall’art. 2424 c.c. per i debiti esigibili oltre l’esercizio successivo), allora la compensazione non potrà operare che in via volontaria, per effetto del consenso della società, secondo quanto previsto dall’art. 1252 c.c.
     In tale caso, il verbale assembleare che [a prescindere da conseguenze di ordine fiscale] attestasse la contestuale sottoscrizione e – quindi – la compensazione potrà opportunamente dare menzione di questo consenso, che – atteggiandosi ad atto di gestione – dovrà essere rilasciato dall’organo amministrativo.
     Non appare necessario – trattandosi di atto nella discrezionalità degli amministratori – che dal verbale si evidenzino i motivi di interesse, per la società, alla compensazione di un debito “non scaduto” con un credito invece esigibile, quale è quello derivante dalla sottoscrizione dell’aumento di capitale. In termini di mero supporto professionale, peraltro, il notaio potrà evidenziare alla società l’opportunità di accertare l’effettivo interesse della società stessa, in merito; esso potrà consistere, a titolo di esempio, in formule di attualizzazione dell’importo capitale del debito, oppure – specie ove sul debito fossero pattuiti interessi – nel mero interesse alla conversione del debito stesso in patrimonio netto; il comportamento della società, per altro verso, dovrà in tali situazioni tenere conto del necessario principio di parità di trattamento dei soci, e quindi – ove ne ricorrano i presupposti – non escludere gli altri soci dall’accordo inteso alla compensazione con uno di essi.
     Le considerazioni che precedono appaiono riferibili alla generalità dei debiti della società verso il sottoscrittore, prescindendo dalla natura finanziaria o meno degli stessi.
     Pertanto, la compensazione potrà determinarsi – secondo le varie modalità sopra indicate – sia qualora il debito derivi da un finanziamento concesso alla società, sia qualora, ad esempio, esso costituisca l’effetto di una diversa operazione finalizzata all’acquisto, da parte della società, di beni necessari alla sua attività, ed alla quale si accompagni la dilazione del prezzo dovuto.
     L’iscrizione del debito nella contabilità e quindi nel bilancio, in una con le cautele che assistono la formazione ed il controllo del bilancio stesso, è infatti da considerare “elemento certificativo” della sua esistenza e del suo ammontare, indipendentemente dalla causa contrattuale dalla quale il debito stesso origina.
     Non può tuttavia escludersi che, allorquando il debito non abbia natura finanziaria, possa risultare evidente l’esistenza di un nesso (di natura temporale o funzionale) tra la delibera di aumento in denaro e l’operazione (nell’esempio di cui sopra, la compravendita di beni con prezzo dilazionato) da cui il debito da compensare origina.
     In tali ipotesi potrà essere opportunamente valutato se i principi che regolano la corretta formazione del capitale non consiglino l’erezione di una perizia di stima, redatta ai sensi – a seconda dei casi – degli artt. 2343, 2343-ter o 2465 c.c., a presidio di interessi non dissimili da quelli tutelati dalle disposizioni sugli acquisti pericolosi di cui agli artt. 2343-bis e 2465, comma 2, c.c.
    Interessi che, mutatis mutandis, nella valutazione di alcuni interpreti si appalesano anche oltre il limite dei due anni dalla costituzione della società, allorché le due operazioni (compravendita a favore della società con prezzo dilazionato e sottoscrizione dell’aumento in denaro, con compensazione dei due crediti) appaiano costituire, secondo gli indici esemplificativamente richiamati nella massima, una unica operazione (assimilabile ad un conferimento in natura del bene oggetto della compravendita) ed alla quale sia possibile imputare la carenza della formazione della valutazione peritale.

 

NOTA BIBLIOGRAFICA

     1. – Se da un lato grande attenzione è stata dedicata, sia dalla dottrina che dalla giurisprudenza, al tema generale dell’ammissibilità della compensazione del debito da conferimento con un credito vantato dal conferente verso la società conferitaria, non altrettanto può dirsi, dall’altro, per quanto riguarda l’aspetto più specifico, oggetto della massima, relativo alle condizioni che il credito vantato dal sottoscrittore deve soddisfare e alla natura del suo titolo costitutiva affinché possa legittimamente formare oggetto di compensazione.
     In ordine alla prima questione affrontata dalla massima – quella della compensabilità con un credito del sottoscrittore che sia certo e liquido, ma non esigibile (in quanto non scaduto o perché postergato ex art. 2467 c.c.) – la dottrina che se ne è occupata sembra ridurla sostanzialmente a quella dell’individuazione di quale forma di compensazione sia ammissibile nell’ambito delle operazioni di aumento del capitale, dividendosi gli Autori tra coloro che ammettono la sola compensazione legale (ossia quella che opera tra crediti certi, omogenei, liquidi ed esigibili e che si verifica in forza di un’eccezione di parte), coloro che ammettono unicamente quella volontaria (la quale, mancando i requisiti di quella legale, presuppone invece un vero e proprio accordo) e altri infine che ammettono entrambe le forme.
     Dall’esame delle varie tesi espresse e delle relative argomentazioni sembra infatti che la compensabilità con un credito non esigibile – condizione, quest’ultima, impeditiva della compensazione legale – passi necessariamente attraverso un accordo tra la società e il sottoscrittore, realizzandosi così un vero e proprio negozio bilaterale di compensazione volontaria, legittimando pertanto la riconduzione del tema in oggetto a quello, appunto, più generale della ammissibilità o meno di tale forma di compensazione.
     Nel primo gruppo di Autori si annoverano, in particolare, L. FARENGA, nota a Cass. 10 dicembre 1992, n. 13095, in Riv. dir. comm., 1994, II, 221 ss., secondo cui “È lapalissiano che debba trattarsi di credito liquido ed esigibile (…). Non potrebbe infatti trattarsi di credito contestato dalla società ovvero di credito non ancora scaduto. In particolare, nel secondo caso, si avrebbe infatti una trasformazione del conferimento di denaro in conferimento di credito”, lasciando così sottintendere l’Autore che, nel caso di credito non esigibile, l’operazione andrebbe ricondotta nella fattispecie dell’aumento di capitale in natura, con conseguente necessità della relazione di stima ex art. 2343 c.c.; J.C. GONZALEZ VASQUEZ, Il c.d. aumento di capitale mediante compensazione: natura giuridica e disciplina applicabile, in Giur. comm., 1994, I, 275 ss., il quale, nel criticare la tesi che riconduce la fattispecie all’istituto della compensazione, ritenendo che si tratti piuttosto di novazione, afferma comunque che “se si parte dall’accettazione aprioristica che si tratti di una compensazione, si deve concludere che solo quella legale sarebbe ammissibile e (…) opererebbe sempre per il valore nominale del credito ormai liquido ed esigibile”; dello stesso avviso anche A. MONTESANO, nota a Tribunale di Casale Monferrato 20 febbraio 1995, in Società, 1995, 9, 1194 ss.: “Per l’operatività della compensazione volontaria, pertanto, la società dovrebbe rinunciare al beneficio del termine stabilito a suo favore; ciò potrebbe comportare un danno per il patrimonio sociale poiché la società si priverebbe con anticipo delle sostanze patrimoniali necessarie per adempiere il proprio debito (…). Al fine di liberare gli amministratori da ogni responsabilità verso la società, sarebbe opportuna una preventiva delibera di autorizzazione al compimento della operazione da parte della assemblea ordinaria: quest’ultima, comunque, non potrebbe mai esonerare gli amministratori dalla responsabilità verso i creditori sociali per gli eventuali danni loro arrecati” (l’Autore, peraltro, sembrerebbe lasciar intendere che, in presenza di una relazione di stima che valuti il valore economico del credito inesigibile, la compensazione risulterebbe invece ammissibile); pure favorevole, in generale, alla sola compensazione legale è M.S. SPOLIDORO, Commento al D.P.R. 10 febbraio 1986 n. 30, in Le nuove leggi civili commentate, Cedam, 1988, 179, secondo cui “l’unica condizione alla quale essa [la compensazione] nel nostro ordinamento deve ritenersi soggetta, consiste nel fatto che il credito del sottoscrittore opposto alla società dev’essere comunque un credito di danaro, liquido ed esigibile (salvo forse il caso in cui la inesigibilità dipenda dalla pendenza di un termine stabilito nell’interesse esclusivo del creditore): occorre in altre parole che sussistano le condizioni della compensazione legale. Quando infatti la compensazione volontaria richiede all’organo amministrativo della società una valutazione discrezionale dell’equivalenza del vantaggio derivante dalla liberazione dell’obbligo assunto dalla società nei confronti del sottoscrittore con il sacrificio patrimoniale consistente nel mancato incasso del conferimento, la compensazione volontaria è sostanzialmente analoga, dal punto di vista economico, ad una datio in solutum”; infine, nel senso dell’ammissibilità della (sola) compensazione legale sembra anche A. MONTANARI, L’aumento di capitale mediante compensazione, in Riv. soc., 1967, 999 ss., che sostiene che “ove il sottoscrittore non abbia rinunziato a valersene all’atto della costituzione della società, o dell’aumento di capitale sociale (…) egli potrà sempre opporre in compensazione alla società che gli richiede il conferimento del capitale sottoscritto e non versato il suo credito liquido ed esigibile verso di essa”: l’Autore, infatti, nel riferirsi alla compensazione opposta dal sottoscrittore titolare di un credito liquido ed esigibile (modus operandi e requisiti tipici della compensazione legale) pare infatti non ammettere l’ipotesi di un vero e proprio accordo compensativo.
     Favorevoli, al contrario, alla sola compensazione volontaria, sono F. DI SABATO, Sulla estinzione per compensazione del debito di conferimento, in Contratto e impresa, 1995, 651 ss., secondo il quale “Risulta a questo punto evidente la conclusione nel senso che due concorrenti ragioni consentano di ravvisare l’esistenza di un divieto implicito di compensazione legale, secondo la previsione in bianco dell’art. 1246 n. 5 c.c.: l’essere il credito del socio non legalmente certo, secondo il grado di certezza che il legislatore richiede per i conferimenti diversi dal danaro; l’essere necessario conservare integra agli amministratori la discrezionalità nel richiedere (nel disporre del) l’oggetto dei conferimenti ai quali i sottoscrittori si sono obbligati (…). Nessuna delle argomentazioni su cui si fonda la conclusione si oppone tuttavia a che si realizzi per accordo fra amministratori e socio la compensazione volontaria, ai sensi dell’art. 1252 c.c.”; e P. GUIDA, Conferimento mediante compensazione: spunti per una riflessione, in Riv. not., 1992, 1495 ss., 1500, che afferma essere “evidente che non siamo in presenza di un caso di compensazione legale, ma di compensazione volontaria, che opera solo per volontà delle parti e quindi in presenza di espresse manifestazioni in tal senso”. La posizione di quest’ultimo Autore, peraltro, sembra influenzata ancora dalla tesi, ormai superata, in base alla quale la presunta funzione di garanzia svolta dal capitale sociale imporrebbe che i nuovi conferimenti siano sempre, salvo diversa previsione della deliberazione di aumento, costituiti da denaro liquido effettivamente versato nelle casse sociali.
     Infine, per l’ammissibilità anche della compensazione volontaria – e quindi, conseguentemente, della compensabilità anche di crediti non esigibili – si pronuncia la dottrina maggioritaria, tra cui A. BORTOLUZZI, Delibera di aumento di capitale per compensazione o eseguita in compensazione?, in Riv. not., 2002, 663 ss.; D. CENNI, nota a Cass. 5 febbraio 1996, n. 936, e a Trib. Milano 20 novembre 1995, in Notariato, 1996, 4, 309 ss., 319-320; S. RAMPOLLA, nota a Cass. 5 febbraio 1996, n. 936, in Società, 1996, 7, 782 ss., il quale ultimo in particolare, dopo aver premesso che “la compensazione dà luogo ad una operazione contabile in virtù della quale, operandosi cancellazione di uguali poste dell’attivo (crediti) e del passivo (debiti), il patrimonio netto della società non subisce alterazione alcuna (tutto ciò, ovviamente, ove si ritenga che la compensazione possa aver luogo con riferimento al valore nominale delle reciproche obbligazioni)”, e dopo aver ammesso l’esistenza del pericolo che il ricorso alla compensazione costituisca facile mezzo per eludere la normativa dettata in materia di effettività del capitale ed, in particolare, di esecuzione dei conferimenti in natura (…) ad esempio, a mezzo della fittizia formazione di voci creditorie a vantaggio del socio (o dell’aspirante tale, nel caso di aumento del capitale con esclusione o limitazione del diritto di opzione), afferma poi che “la compensazione deve ritenersi lecita se e nei limiti in cui il credito del socio verso la società sia vero ed esistente” e che “la questione si sposta, piuttosto che sul piano del valore effettivo di realizzo del credito, su quello della verifica della sua verità ed esistenza”; l’Autore conclude quindi che “il pericolo di manovre elusive – sempre presente – non autorizza l’interprete a comprendere il debito da conferimento tra quelli non compensabili (l’art. 1246, n. 5, codice civile, fra l’altro, fa riferimento solo a divieti previsti dalla legge)” e che “A conclusioni non dissimili (…) sembra possibile giungere con riferimento alle ipotesi in cui le reciproche posizioni di debito e credito non presentino i requisiti necessari previsti per l’operatività della compensazione legale”.
     Esplicito in tal senso anche V. SALAFIA, Aumento del capitale e conferimento di crediti, in Società, 1988, 225 ss., che afferma che “la posizione debitoria della società verso il conferente può essere caratterizzata da un’obbligazione non ancora scaduta, mentre la posizione debitoria del conferente è sempre caratterizzata da un’obbligazione scaduta con l’effetto che il relativo credito è liquido ed esigibile. La compensazione fra il credito del conferente e il credito della società può perciò, in questo caso, avvenire solo grazie alla volontà delle parti di procedervi a norma dell’art. 1252, codice civile; altrimenti essa opera in forza di legge, come dispone l’art. 1242, codice civile”.
     Particolarmente argomentate appaiono, sempre nell’ambito degli Autori favorevoli anche alla compensazione volontaria, le considerazioni svolte da G. GIORDANO, Note sulla compensabilità del debito da conferimento, in Riv. soc., 1996, 736 ss., secondo cui “la società potrà inserire nella deliberazione di aumento del capitale in numerario una proposta di regolamento compensativo preventivo allo scopo di disciplinare l’opponibilità unilaterale dell’eccezione di compensazione; al riguardo si consideri che il credito del socio ex mutuo ben raramente soddisferà il requisito dell’esigibilità: nella pratica, infatti, tali operazioni di finanziamento (ad interesse o gratuite) sono concluse senza alcuna pattuizione espressa in ordine al termine di scadenza, con la conseguenza che il credito non potrà ritenersi “a vista” ossia, ex art. 1183, comma 1, c.c., immediatamente esigibile, a ciò ostando, oltre che l’essenzialità del termine nel contratto di mutuo (arg. comb. disp., artt. 1816 e 1817, c.c.) e, in genere, nei contratti restitutori, la circostanza che dal contegno delle parti dovrà spesso implicitamente desumersi (pur quando l’intento perseguito sia quello propriamente monetario e non finanziario) la volontà di dotare la società di liquidità in relazione ad un fabbisogno contingente e per tutta la durata dello stesso. Tale termine, implicitamente convenuto, dovrà ritenersi, a norma dell’art. 1816 c.c., a favore di entrambe le parti se il finanziamento è oneroso, o a favore della società mutuataria, se il finanziamento è gratuito, con la conseguente incompensabilità legale laddove i decimi siano richiamati durante la pendenza del termine. L’imputabilità del finanziamento a versamento decimi di capitale deriva, dunque, o da un’eccezione di compensazione sollevata unilateralmente sulla base di un accordo compensativo preventivo perfezionatosi con la sottoscrizione dell’aumento di capitale (…), ovvero successivamente mediante un accordo di compensazione volontaria (…) concluso tra finanziatore e organo amministrativo, ex art. 1252, comma 1, c.c., successivamente alla sottoscrizione delle azioni di nuova emissione, durante lo svolgimento dei reciproci rapporti sottoscrizione/mutuo” e ancora “oggetto dell’accordo estintivo oneroso potranno essere anche finanziamenti non esigibili” ossia “finanziamenti rimborsabili in data successiva a quella della deliberazione di aumento di capitale. È appena il caso di precisare che il valore nominale della quota di capitale così sottoscritta e dell’eventuale sovrapprezzo devono coincidere con il valore nominale del (la parte di) finanziamento estinto”. E altresì quelle di C. GRIPPA, Legittimità della compensazione in sede di aumento del capitale sociale: difficoltà di inquadramento del fenomeno, nota a Cass. 5 febbraio 1996, n. 936, in Giur. comm., 1998, 4, 505 ss., la quale, nel sottolineare che “Con riguardo al requisito della esigibilità, va detto che il credito della società verso il socio, avente ad oggetto il versamento dei decimi, è immediatamente esigibile, mentre potrebbe non esserlo quello del socio verso la società perché sottoposto, per la sua realizzazione, a condizione (sospensiva o risolutiva) o a termine” chiarisce poi la differenza, appunto, tra l’inesigibilità dovuta alla presenza di una condizione (riducendosi in tal caso la situazione soggettiva della parte in una “semplice aspettativa”) – situazione che mette in dubbio l’esistenza stessa del credito e che non legittimerebbe alcuna compensazione – e l’inesigibilità dovuta alla presenza di un termine di adempimento, che invece sarebbe suscettibile di compensazione, salvo approfondimenti in merito ad un’eventuale necessità di stima del credito, di cui si dirà in seguito.
     Tra le motivazioni addotte a sostegno della tesi dell’ammissibilità anche di una compensazione volontaria, si segnala, in particolare, l’identità di funzione che costituirebbe il fondamento dell’istituto della compensazione, e che permetterebbe di intenderlo unitariamente (C. GRIPPA, op. cit.).
     Anche per quanto riguarda la giurisprudenza, a fronte di un cospicuo numero di pronunce ormai favorevoli alla compensazione (legale, come sottolinea anche C. GRIPPA, op. cit. – “l’orizzonte scrutato dalla Corte [nella nota sentenza n. 936 del 5 febbraio 1996,] rimane limitato dalla considerazione della sola compensazione legale” – venendo in considerazione sempre crediti liquidi ed esigibili), solo in pochi casi è stato affrontato anche il tema della compensazione volontaria, peraltro in modo mai particolarmente approfondito: tra di essi, Trib. Venezia, 18 settembre 1984, in Società, 1985, 612, la cui massima recita “La compensazione del debito del socio conseguente alla sottoscrizione di una quota dell’aumento di capitale sociale presuppone, con riferimento a quella convenzionale, oltre che la prova del credito del socio anche la prova della pattuizione relativa (…)”; e Trib. Piacenza 1° giugno 1995, in Società, 995, 1593, ove si legge “È omologabile la delibera assembleare di aumento del capitale sociale mediante accordo compensativo volontario con crediti vantati dai soci nei confronti della società”.
     Anche dall’esame della giurisprudenza sembra confermata l’impressione che il tema della compensabilità di crediti non esigibili sia stato inquadrato in quello più generale dell’ammissibilità della compensazione volontaria.
     2. – Per quanto concerne la seconda questione affrontata dalla massima – quella della compensabilità con un credito del sottoscrittore di natura non “finanziaria” – la dottrina maggioritaria assume un atteggiamento favorevole a tale ipotesi di compensazione, ritenendo, in modo più o meno esplicito, i crediti di natura non finanziaria equivalenti a quelli derivanti da finanziamenti fatti causa mutui, ai fini della loro idoneità alla liberazione del capitale sociale.
     Si vedano, tra gli altri, C. ANGELICI, Appunti sull’art. 2346 c.c., con particolare riguardo al conferimento mediante compensazione, in Giur. comm., 1988, I, 175 ss., secondo il quale, nel caso in cui “il socio presta beni o servizi alla società (…) le motivazioni finanziarie (…) s’inseriscono all’interno di una più ampia operazione e si combinano con l’ulteriore interesse della società (per restare all’esempio fatto) di acquisire quei determinati beni o servizi. Qui allora il problema non si pone e non si risolve sul piano della disciplina del “rischio” del creditore e della compensazione come strumento per limitarlo, bensì su quello di una valutazione globale del rapporto e di una prevenzione e repressione degli abusi che con esso possono realizzarsi a danno della società e degli altri soci. Abusi che, come chiaro, possono riguardare sia l’effettiva consistenza economica dell’operazione sia il pericolo che a seguito di essa si provochi artificiosamente una disparità di trattamento tra i soci: interessi i quali entrambi, è forse superfluo ricordarlo, trovano ora un (parziale) momento di espressione giuridica nella duplice cautela prevista dall’art. 2343-bis c.c.”; A. BORTOLUZZI, op. cit., che espressamente ammette la compensazione con crediti derivanti da cessione di beni o prestazioni di servivi a favore della società; G.E. COLOMBO, Aspetti patrimoniali e finanziari della disciplina delle società per azioni, Diritto commerciale corso progredito 2007/2008 presso Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano, Appunti dalle lezioni, il quale prende proprio in considerazione l’esempio del “socio [che] ha fornito beni a credito alla società, poi sottoscrive l’aumento di capitale, e anziché versare 700 compensa col suo credito di 500 e versa solo 200”; A. DENTAMARO, Aumento di capitale e compensazione, in Riv. soc., 1997, 1027 ss., 1069, che si riferisce a “crediti vantati dal socio verso la società a titolo di restituzione di finanziamenti di altra natura ovvero derivanti da atti negoziali dallo stesso effettuati con la società”; F. DI SABATO, op. cit., e L. FARENGA, op. cit., i quali testualmente si riferiscono a “crediti vantati dai soci a vario titolo”, “crediti commerciali, ecc.” e al “credito vantato nei confronti della società per un qualsiasi titolo (vendita di merci, prestazione di servizi, finanziamento, ecc.)”; ancora, chiaramente in tal senso sono sia G. GIORDANO, op. cit., secondo cui “L’accertata compatibilità del meccanismo compensativo o estintivo con l’organizzazione societaria e in particolare con i principi dell’effettività del capitale e della corrispondenza del valore del conferimento al valore nominale della partecipazione consente di ritenere estensibili le conclusioni sopra raggiunte anche al Geldkredit derivante da titoli diversi dal Gesellschafterdarlhen; anche nel caso in cui il credito del socio derivi dalla vendita di beni alla società, o dalla prestazione di servizi, il controllo della fattispecie contrattuale consente, infatti, un’adeguata tutela in ipotesi potenzialmente) elusive”; sia A. MONTANARI, op. cit., che nel ritenere sempre ammissibile la compensazione, si riferisce espressamente al socio che abbia fatto credito alla società “dandole a mutuo una somma di denaro o vendendole a termine della merce” nonché al prestatore di lavoro o servizi che vanti verso la società un credito per la remunerazione di essi; sia inoltre S. RAMPOLLA, op. cit., che cita (pur evidenziandone il profilo patologico, ma senza escluderne il linea di principio la compensabilità) il caso dell’alienazione di un bene alla società per importo superiore al suo valore effettivo con successiva compensazione fra obbligazione del prezzo e quella derivante dall’obbligo di eseguire il conferimento; infine, anche M.S. SPOLIDORO, op. cit., pur escludendo in generale la compensazione legale in quanto sottolinea l’importanza del requisito dell’esigibilità, sembra essere però indifferente rispetto al titolo costitutivo del credito vantato dal socio.
     Parte della dottrina si è occupata del problema da un diverso angolo visuale, ossia quello legato al tema dei cosiddetti “conferimenti in natura mascherati”, ovverosia quelle operazioni di vendita di beni dal socio alla società con successivo utilizzo del denaro ricavato dalla vendita (ovvero del credito derivante dalla dilazione di pagamento eventualmente concordata) per la sottoscrizione di un aumento di capitale (nel secondo caso mediante, appunto, compensazione). Va chiarito che il conferimento in natura mascherato non si attua necessariamente a mezzo del meccanismo della compensazione nell’ambito della sottoscrizione di un aumento di capitale (tema specifico affrontato dalla massima), bensì può realizzarsi anche a prescindere dalla compensazione, nell’ipotesi in cui il prezzo di vendita del bene dal socio alla società sia stato pagato da quest’ultima e dal socio poi versato nelle casse sociali in sede di sottoscrizione di un aumento di capitale in denaro. In argomento si segnala in particolare V. DE STASIO, Invalidità dell’accordo di conferimento in natura mascherato (non portato ad esecuzione), nota a Appello Milano, 15 dicembre 2000, in Giur. it., 2001, 2110 ss., secondo il quale gli elementi costitutivi essenziali della descritta fattispecie sono “la sottoscrizione del conferimento di denaro, la stipulazione della vendita alla società di un bene appartenente al socio sottoscrittore, il collegamento fra i due puntuali atti sopra delineati”. L’Autore concorda con la dottrina che ravvisa lo strumento di tutela contro operazioni similari nella frode alla legge, soffermandosi peraltro sull’individuazione della norma da considerarsi elusa, e ciò ai fini di valutare le conseguenze giuridiche dell’accertamento della nullità dell’accordo diretto a realizzare un conferimento mascherato. In particolare, sottolinea che, ove fosse da ritenersi violata la norma di cui all’art. 2346, secondo la dottrina “la nullità dell’accordo negoziale di conferimento in natura mascherato sarebbe legata alla mancanza di congruità del prezzo per il quale la società conferitaria si impegna ad acquistare il bene in natura. Negli altri casi, l’operazione – salva la necessità comunque di una perizia ex art. 2343 c.c. per coonestare la congruità del prezzo – sarebbe perfettamente legittima”. Ove invece fosse violato l’art. 2342 c.c., vi sarebbe probabilmente, come nel diritto tedesco, la sostituzione dell’obbligazione di conferire in natura con l’obbligazione di conferire in denaro per pari importo.
     In giurisprudenza, si registrano tre pronunce in cui si prende espressamente in considerazione l’ipotesi del credito non finanziario. La più risalente è il decreto del Tribunale di Treviso del 13 aprile 1977, in Riv. dir. comm., 1977, II, 385, e in Giur. it., 1978, I, 2, 582 ss., la cui massima recita “È da disporre il sequestro giudiziario di azioni delle quali è controversa la proprietà perché il corrispondente conferimento, figurante effettuato in denaro, si è concretato invece nella vendita alla società di merci di magazzino non valutate da un esperto designato dal presidente del tribunale e quindi è affetto da nullità. Se in un contratto di società di capitali (nella specie società per azioni) il socio conferente pattuisce con gli altri soci di apportare beni in natura, ma fatturati in maniera che risultino venduti alla società e che risulti conferito il loro prezzo, si ha nullità del patto di conferimento per frode alla legge”.
     Sul medesimo piano dell’invalidità dell’operazione, nell’ipotesi in cui però vi sia un collegamento tra la vendita e il successivo conferimento, si è pronunciata poi la Corte di Appello Milano 15 dicembre 2000, in Giur. it., 2001, 2110 ss., di cui si riporta la massima “Allorché singoli accordi siano fra loro collegati da un programma unitario, di cui essi appaiano come momenti di realizzazione, tendente a garantire che, a fronte di finanziamenti destinati alla ricapitalizzazione di una società per azioni, la società stessa acquisti per un prezzo predeterminato beni in natura messi a disposizione dal finanziatore, si configura un conferimento in natura mascherato. Gli accordi che risultano espressione del programma di conferimento in natura mascherato sono nulli per violazione delle disposizioni inderogabilmente fissate dagli artt. 2342, 2343 e 2440 c.c.”.
     In termini contrapposti, invece, si può annoverare la Corte di Appello di Roma del 3 settembre 2002, in Società, 2003, 41, secondo cui “È legittimo il conferimento effettuato mediante compensazione con un controcredito del socio, senza bisogno di stima ex art. 2343 c.c., anche se esso consista nel corrispettivo di un appalto riconosciuto dalla società committente in via anticipata rispetto all’esecuzione dell’opera, una volta escluso il carattere simulato del contratto, senza che l’oggetto del conferimento sia assimilabile ad una prestazione d’opera vietata dall’art. 2342”.
     3. – Nell’ambito delle tesi sopra esposte, siano esse riferite alla compensazione di crediti non esigibili oppure a crediti di natura non finanziaria, quasi unanimemente si sottolineano i pericoli insiti in operazioni di aumento di capitale così realizzate e legati, sostanzialmente, all’annacquamento del capitale sociale che, grazie a manovre fraudolente, potrebbe facilmente essere aumentato senza che a ciò corrisponda un effettivo incremento del patrimonio sociale (ad esempio se il credito del socio non fosse esistente o fosse stato sopravvalutato).
     È diffusa in dottrina la convinzione che la risposta alla domanda sull’ammissibilità della compensazione volontaria o della compensazione con crediti non finanziari non possa essere né sempre negativa (“La preoccupazione di evitare manovre elusive non sembra tuttavia sufficiente ad impedire il ricorso all’istituto della compensazione. Il tema, anche in questo caso, sarà quello della validità delle deliberazioni all’uopo assunte dagli organi sociali (e della correlativa responsabilità” così S. RAMPOLLA, op. cit.), né che la compensazione sia sempre e comunque lecita. Tra gli indici che farebbero sospettare della presenza di operazioni fraudolente, parte della dottrina evidenzia in particolare il dato temporale, ossia il momento in cui sorge il credito che il sottoscrittore intende utilizzare in compensazione: in particolare si veda C. ANGELICI, op. cit., secondo cui “parametro valutativo per eventualmente articolare le diverse ipotesi non può essere un confronto tra il “valore” del conferimento dovuto e quello del credito del socio, bensì l’analisi delle circostanze che in concreto caratterizzano il secondo. La questione attiene pertanto soprattutto, credo, all’eventualità in cui il credito del socio sorge quando egli stesso era già debitore del conferimento della cui compensazione si discute. In questo caso infatti si evidenziano quelle sovrapposizioni ed interferenze tra “rischio” del socio e “rischio” del creditore; e qui la tecnica della compensazione potrebbe condurre a risultati anomali. Naturalmente la segnalata anomalia non si spiega per il solo dato cronologico che il credito del socio sorge in un momento in cui era già debitore del conferimento: questa rappresenta in realtà una delle circostanze cui altre debbono aggiungersi al fine di valutare integralmente la vicenda, in particolare per quando concerne il rapporto da cui quel credito deriva”.
     Alcuni Autori, allora, subordinano la compensazione in tali ipotesi alla previa predisposizione di una relazione di stima del credito: in particolare, per la compensazione di crediti non esigibili, si veda A. MONTESANO, op. cit., il quale, nel negare la compensazione volontaria in quanto “Per l’operatività della compensazione volontaria, pertanto, la società dovrebbe rinunciare al beneficio del termine stabilito a sua favore; ciò potrebbe comportare un danno per il patrimonio sociale poiché la società si priverebbe con anticipo delle sostanze patrimoniali necessarie per adempiere il proprio debito”, sembrerebbe d’altro canto ammetterla in presenza di una stima giurata del valore economico del credito inesigibile, che altresì esonererebbe gli amministratori da responsabilità; mentre, a proposito della compensazione di crediti non finanziari, si veda C.A. BUSI, S.p.a. – s.r.l. operazioni sul capitale, Egea, 2004, 534-535, il quale sostiene che “sembra preferibile distinguere l’ipotesi di crediti vantati dai soci per finanziamenti infruttiferi in denaro versati dai soci nelle casse della società dall’ipotesi di crediti dei soci nascenti da altre prestazioni: ossia il credito nascente dal mancato pagamento del prezzo di un bene venduto dal socio alla società (al di fuori dell’ipotesi di cui all’art. 2343-bis c.c., per esempio dopo due anni dalla costituzione della società), o il credito nascente dalle prestazioni di servizi. Nel primo caso l’operazione non sembra richieda la stima di cui all’art. 2343 c.c. o all’art. 2464 c.c. I sottoscrittori delle azioni hanno, infatti, già versato alla società (anche se sotto forma di finanziamento), ai sensi dell’art. 2342 c.c. o dell’art. 2464 c.c., somme di denaro liquido. Il fatto storico dell’avvenuto versamento sarà attestato dagli amministratori e dall’organo di controllo, ove previsto nella s.r.l. (eventualmente mediante indicazione delle contabili del versamento) e risulterà regolarmente esposto in bilancio, come credito liquido ed esigibile. Viceversa, nel secondo caso sembra opportuna l’applicazione “analogica” dell’art. 2343 c.c. o dell’art. 2464 c.c. Ciò permetterebbe di evitare o, almeno, rendere più difficili quei sotterfugi, come il gonfiamento di crediti esistenti, che implicherebbero una violazione del principio di integrità ed effettività del capitale sociale”; e si veda altresì quanto statuito dal Comitato Interregionale Dei Consigli Notarili Delle Tre Venezie, Orientamenti del comitato triveneto dei notai in materia di atti societari, la cui massima H.A.4, nel recitare che “Non è necessaria la relazione di stima nel caso di aumento di capitale mediante imputazione allo stesso di somme derivanti da prestiti effettuati dai soci o da terzi alla società, sempre che detti prestiti siano avvenuti in denaro e che risultino da bilancio o da apposita situazione patrimoniale approvata dall’assemblea”, sembra pertanto, da un lato, escludere la compensazione in quanto tale per crediti non finanziari e, dall’altro, ammetterla implicitamente invece in presenza di una relazione di stima.
     Schierato nel senso della necessità della relazione di stima è altresì J.C. GONZALEZ VASQUEZ, op. cit., che però, come si è visto, contesta l’inquadramento nell’ambito dell’istituto della compensazione, ritenendo più adeguato quello della novazione: “quello che non riesce a spiegare neanche questo tipo di compensazione convenzionale è la vera finalità delle parti nel realizzare l’operazione in parola: non si tratta in questo caso di agevolare future compensazioni per estinguere così più facilmente eventuali rapporti obbligatori reciproci, ma di trasformare un concreto rapporto obbligatorio (il credito verso la società) in un altro rapporto a diverso titolo (il rapporto societario) intercorrente tra gli stessi soggetti (…) In questi casi, se si vuole trasformare detti crediti in capitale sociale, si dovrà ammettere che quello che si conferisce non è la somma di denaro che i crediti rappresentano (poiché non sappiano certamente quale sia questo ammontare in denaro “attuale”), bensì gli stessi crediti, che andranno valutati allo scopo di determinare esattamente l’apporto del sottoscrittore alla società e, di conseguenza, attribuirgli una od un’altra quota di partecipazione alla medesima”.
     Altri Autori, invece, negano la necessità della relazione di stima, in quanto l’ordinamento già prevede dei rimedi contro tali abusi. Tra di essi, in particolare S. RAMPOLLA, op. cit., secondo cui “Un punto fondamentale va preliminarmente chiarito: la compensazione deve ritenersi lecita se nei limiti in cui il credito del socio verso la società sia vero ed esistente (…) la questione si sposta, piuttosto che sul piano del valore effettivo di realizzo del credito, su quello della verifica della sua verità ed esistenza. Come si è accennato, i rimedi atti ad impedire il verificarsi di simili fattispecie vanno ricercati sul più generale piano della tutela avverso comportamenti illeciti degli organi sociali. In particolare vanno tenuti da conto i principi che presiedono alla veritiera e corretta formazione del bilancio e, conseguentemente, le sanzioni penali poste a carico degli amministratori per il caso di violazione degli stessi (artt. 2621 e presumibilmente, 2623, n. 2, codice civile)”; e anche G.E. COLOMBO, op. cit., che chiaramente afferma “C’è chi sottolinea i pericoli dell’operazione: che il socio venda alla società beni a prezzi gonfiati (comunque non “controllati” da un soggetto imparziale, come invece accadrebbe se venisse conferito il credito: 2343) per poi compensare il proprio credito, gonfiato, col debito di conferimento. Il pericolo esiste: ma per la fase più delicata di vita della società (primi 2 anni), e limitatamente ai casi economicamente più rilevanti (corrispettivo dovuto dalla società pari o superiore al decimo del capitale sociale), la legge appresta le cautele dell’art. 2343-bis; fuori di quel caso, è certo possibile un abuso, ma il rimedio non può essere l’indiscriminato rifiuto di un mezzo lecito, bensì la reazione contro l’abuso, cioè l’utilizzo del principio della frode alla legge e, se del caso, della responsabilità degli amministratori”.
     Non ritiene necessaria la relazione di stima anche T. SEGRE’, nota a Trib. Treviso 13 aprile 1977, in Giur. it., 1978, I, 2, 582 ss., che sostiene, con riferimento all’ipotesi di conferimento in natura mascherato, che “Dobbiamo immaginare, anzitutto, un’ipotesi in cui l’idea di un conferimento in natura non sia mai passata per la mente di alcuno degli interessati. Si supponga una società per azioni in cui l’assemblea ha deliberato un aumento di capitale in denaro. Uno dei soci (…) sottoscrive l’intero aumento di capitale deliberato: egli diventa, così, debitore verso la società dell’importo relativo. Ora il socio deve vendere dei beni per provvedersi del denaro occorrente per il pagamento del debito così assunto. Poiché questi beni sono di tal natura da poter servire alla società per la sua industria, egli si rivolge agli amministratori, proponendo la vendita alla società. Si tratta il prezzo e si raggiunge un accordo. Con questo il socio diventa creditore del prezzo pattuito verso la società. A norma dell’art. 1241 codice civile, il debito e il credito si compensano fino a reciproca concorrenza”. Lo stesso Autore nega la necessità della previa stima del credito anche nel caso di collegamento tra vendita e aumento di capitale: “Veniamo ora al caso che l’intenzione degli interessati fosse di attuare un conferimento in natura; e che la strada indicata nel paragrafo precedente sia seguito al fine di evitare la presentazione della relazione giurata sul valore dei beni. Sostengo che questo diverso atteggiamento psichico è solamente un motivo irrilevante. Affermare che l’insieme dei due negozi suddetti costituisca il mezzo per eludere l’applicazione di una norma imperativa, secondo la previsione dell’art. 1344 codice civile, si potrebbe solo se la ratio legis degli artt. 2343 e 2440 si estendesse anche al trasferimento di beni mediante compravendita. Ma, a ben guardare, non è così. La ragione, per la quale la legge impone la stima dei beni oggetto di conferimento in natura e non impone la stima dei beni oggetto di compravendita, è che il conferimento in natura è pattuito tra i soci (nel caso dell’art. 2343) o deliberato dall’assemblea (nel caso dell’art. 2440), mentre la compravendita è consentita dagli amministratori. I soci e la loro assemblea non incontrano responsabilità veruna per le loro pattuizioni o deliberazioni (…) Diversa è la posizione giuridica degli amministratori: essi rispondono verso i creditori sociali per l’inosservanza degli obblighi inerenti alla conservazione dell’integrità del patrimonio sociale”.
     Analogamente, nel senso che ciò che rileva non è tanto la stima in quanto tale, bensì il dato oggettivo dell’effettiva consistenza del credito vantato dal socio verso la società, sicché, là dove questo risulti effettivo, nessun pregiudizio potrà derivare ai creditori dalla compensazione, si veda A. RATTI, Sui conferimenti in natura per via indiretta, in Riv. soc., 1993, 231 ss., secondo cui “Per poter valutare la liceità o meno della condotta descritta (…) è tuttavia necessario esaminare se il perseguimento di tale scopo per via indiretta si traduca nella violazione di una norma imperativa e, quindi, ricercare quali siano gli interessi tutelati dalla norma in questione. Si è già osservato che l’art. 2343 c.c. deve intendersi quale corollario dell’art. 2346 c.c., garantendo così una corrispondenza tra valore nominale delle azioni e l’entità del conferimento; ove tale corrispondenza esista, lo scopo della norma risulta rispettato, pur in assenza della relazione di stima”, nonché, con diffusa motivazione, C. GRIPPA, op. cit., la quale ammette sì che “la predisposizione della perizia di stima accerterebbe l’esistenza e la consistenza del credito del socio, consentendone l’utilizzazione ai fini dell’aumento del capitale sociale”, salvo però affermare che tale accorgimento “equipara, con vistosa forzatura, la fattispecie della compensazione a quella del conferimento di credito” e criticare altresì la tesi che “pur individuando la natura autonoma della stessa, ritiene ad essa applicabile per via analogica l’art. 2343 c.c.”. L’Autore, dal canto suo, a sostegno della propria posizione, sottolinea l’importanza della circostanza che il “credito del socio preesiste alla fase dell’aumento del capitale e risulta già dal bilancio”, il quale “deve rappresentare in modo veritiero e corretto la situazione patrimoniale e finanziaria” (art. 2423, comma 1 c.c.), con conseguente applicazione della sanzione penale prevista a carico degli amministratori e dei sindaci dall’art. 2621, comma 1, n. 1, c.c.; prosegue poi affermando che “se è vero che il bilancio e la disciplina ad esso afferente non possa comunque e sempre avere la funzione di “accertare” l’esistenza e la consistenza del credito del socio (ma tale ambìto compito non potrebbe essere svolto neanche dalla perizia di stima), allora è opportuno superare la considerazione relativistica del documento in sé e rinviare a quell’obbligo di tenuta delle scritture contabili (art. 2214 c.c.) cui l’imprenditore commerciale deve adempiere e soprattutto all’obbligo di “indicare giorno per giorno le operazioni relative all’esercizio dell’impresa” nel libro giornale (art. 2216 c.c.). L’obbligo di tenuta delle scritture contabili, sia dal punto di vista formale che sostanziale, andrebbe pertanto inteso come “espressione di un dovere (onere) professionale di diligenza” della condotta degli amministratori che, nell’ambito delle rilevazioni delle operazioni attinenti alla gestione della società, da un lato si traduce nel rispetto del “fondamentale principio di verità” di modo che “il fatto o atto registrato deve corrispondere al fatto o atto accaduto”, dall’altro comporta che ogni fatto della vita sociale, potendo comunque coinvolgere interessi interni ed esterni alla stessa società, venga correttamente rilevato, a conferma del nesso che intercorre fra attività (sociale) e documentazione. Per questo motivo la difformità tra il fatto documentato e il fatto reale – che se dipendente dalla volontà degli amministratori si concretizza nella figura del “falso volontario” – è per gli stessi fonte di responsabilità secondo i principi generali dell’illecito civile. Sulla base di tali argomentazioni il problema della presunta indispensabilità della relazione di stima del credito del socio viene ad essere superato, poiché l’esigenza che la valutazione dell’esistenza e della consistenza del credito intende soddisfare trova, ed anzi deve necessariamente trovare, ampia tutela indipendentemente dalla relazione di stima. L’essenza del fenomeno della compensazione è racchiusa in quel credito del socio, nella sua origine, nella sua funzione, ma soprattutto nel suo utilizzo. Non avrebbe senso sottoporre a stima il credito vantato dal socio nei confronti della società che sia sorto prima del debito da sottoscrizione. Il denaro o i mezzi apportati dal socio sono già entrati nelle casse sociali o comunque nel patrimonio aziendale e quindi non sussiste nessuna delle ragioni che hanno indotto il legislatore a prescrivere la necessità della relazione di stima. La società, al momento dell’aumento del capitale, non riceve dall’esterno alcun elemento patrimoniale, poiché il credito del socio rappresenta un’utilità economica già iscritta in bilancio o comunque già risultante dalla registrazione contabile dell’avvenuta operazione di finanziamento e quindi già valutata dagli amministratori nel rispetto dei criteri fissati dalla legge a tutela degli stessi soci e dei terzi”.
     Sul piano giurisprudenziale, per la tesi della necessità della previa stima dei beni in natura oggetto di vendita dal socio alla società (sia pure riferita all’ipotesi di conferimento in natura mascherato), si veda Trib. Treviso 13 aprile 1977, in Riv. dir. comm., 1977, II, 385, e in Giur. it., 1978, I, 2, 582 ss., mentre, in senso opposto, per la non necessità della stima dei crediti non finanziari, si veda Corte di Appello di Roma del 3 settembre 2002, in Società, 2003, 41. [Nota bibliografica a cura di S. FINARDI]