91. Clausola statutaria di rinvio a disposizioni di legge successivamente modificate
La clausola statutaria rinviante
a una disposizione di legge (es. art. 2486 c.c. an-te riforma) va
interpretata, alla stregua dei criteri di interpretazione oggettiva
degli statuti societari, come rimando alla disciplina pro tempore
vigente (anche se diversa da quella vigente al tempo della
introduzione della clausola di rinvio), salvo che dal medesimo
sta-tutosi evinca l'inequivoca adozione di una regola convenzionale
coincidente con quella vigente al momento della
introduzione della clausola di rinvio, con effetto di escludere il
recepimento automatico di eventuali future modifiche
normative.
MOTIVAZIONE
E' nota la persistenza, in statuti di s.p.a. e di s.r.l., di
clausole strettamente connesse con un assetto normativo inciso da
successive modifiche legislative, con il conseguente problema della
ricostruzione del significato e della portata di quelle clausole in
dipendenza degli intervenuti cambiamenti. La riforma societaria del
2003 ha reso particolarmente evidente, con riguardo alle società
già esistenti alla data di entrata in vigore del d.lgs. 6/2003, un
problema che si può ormai prevedere come ricorrente, data
l'accresciuta disponibilità del legislatore a frequenti interventi
in materia (si
pensi ai continui adeguamenti della disciplina delle società
quotate e agli aggiornamenti imposti al sistema delle società di
capitali dalle fonti comunitarie).
Vengono qui in considerazione non già le clausole la cui portata
originaria non sia più compatibile con l'ordinamento, le quali
saranno affette da nullità sopravvenuta e sostituite
automaticamente dalla nuova disciplina inderogabile, bensì le
clausole la cui portata originaria, in linea con la normativa
dell'epoca, sia ancora compatibile con l'ordinamento, che ha però
nel frattempo modificato la normativa di base.
Quando infatti le clausole statutarie fanno riferimento alle regole
di legge - si tratti di norme (totalmente o parzialmente)
disponibili ovvero di norme un tempo inde-rogabili e
successivamente modificate in senso più liberale -, vi è sempre il
dubbio che chi le ha introdotte intendesse attenersi a scelte
normative (dal legislatore valutate come le regole più eque del
caso medio) quali rilevabili nel momento in cui si tratta di
applicare quelle clausole ovvero intendesse sposare e recepire
proprio quelle regole di base vigenti nel momento della
introduzione delle clausole, con esclusione del recepi-mento
automatico di qualsiasi loro successivo cambiamento.
Il problema enunciato, se fosse da risolversi esclusivamente
interpretando la volontà dei soci che introdussero le clausole, si
ridurrebbe ad una quaestio facti. Ma in contrario va ricordato che,
allorché viene in considerazione la ricostruzione del senso di una
clausola statutaria, occorre non trascurare che:
1.i) la clausola potrebbe essere stata introdotta con il dissenso o
la non partecipazione alla decisione di alcuni soci, i quali
comunque non possono sottrarsi agli effetti di una clausola che
altri ha voluto;
ii) la compagine sociale, nel momento dell'applicazione della
clausola, potrebbe essere (in tutto o in parte) diversa da quella
che aveva introdotto la clausola, la cui effettiva volontà, in tal
caso, sarà con buone probabilità ignota ai soci attuali;
iii) quand'anche nel momento dell'applicazione della clausola la
compagine sociale sia la medesima che l'ha introdotta
all'unanimità, in primo luogo è possibile che nessuna scelta
consapevole sia stata compiuta dai soci al momento della sua
introduzione e in secondo luogo va considerato che al rispetto e
alla portata della clausola (specie per le conseguenze che possono
attenere alla validità e alla stabilità delle deci-sioni sociali,
nonché ai diritti/obblighi sociali e, quindi, al valore delle
partecipazioni) possono essere interessati anche diversi soggetti
terzi (es. contraenti con la società, enti pubblici, aspiranti
soci): e non sembra possibile assegnare ad una stessa clausola
significati diversi a seconda che vengano o no in evidenza profili
che trascendono gli interessi dei soci che l'hanno introdotta; iv)
tra i terzi interessati è inclusa l'autorità competente ad
effettuare il controllo di legalità/iscrivibilità delle delibere
che vi sono soggette (là dove la clausola incida
sulla conformità della delibera allo statuto), la quale autorità -
anche per il breve termine entro il quale quel controllo va
effettuato - non può che basare la propria attività di controllo
sul testo statutario, non avendo in genere strumenti, alternativi o
integrativi rispetto allo statuto, per ricostruire la volontà
sottostante alla clausola;
v) nemmeno è sempre possibile riconoscere dal testo statutario
quale fosse l'assetto normativo di riferimento all'epoca della
introduzione della clausola: mentre il rinvio ad un articolo che
non regola più la materia affrontata nella clausola statutaria (es.
art. 2486, nell'ambito della determinazione dei quorum decisionali
nella s.r.l., ora contenuti nell'art. 2479-bis; art. 2410, per i
limiti all'emissione delle obbligazioni, ora contenuti nell'art.
2412) mette in allerta il suo lettore, la modifica di una norma
dispositiva senza spostamento ad altra sede della regolamentazione
della materia (es. elimi-nazione del deposito delle azioni per
l'intervento in assemblea nell'art. 2370 c.c.; modifica dei
presupposti per l'assemblea totalitaria nell'art. 2366; modifica
dei limiti alla rappresentanza in assemblea nell'art. 2372) non è
percepibile da chi, nell'interpretare una clausola di rinvio ad una
precisa disposizione di legge (es. rinvio al predetto art. 2370
circa le regole di legittimazione all'intervento in assemblea), non
può vedersi addossato il gravoso onere di verificare quale fosse il
testo della norma richiamata alla data della creazione della
clausola di rinvio (ma, d'altro canto, la ricostruzione del senso
della clausola non può variare in relazione alla riconoscibilità o
non riconoscibilità delle modifiche delle norme di legge
richiamate).
Tutto ciò, che vale in modo identico per s.p.a. e s.r.l., depone
per la necessità che l'interpretazione della clausola statutaria
sia condotta sempre con criteri oggettivi, avendo come termine di
riferimento il testo statutario nella sua interezza, testo al quale
lo stesso legislatore concede assoluta prevalenza persino rispetto
all'atto costitutivo
(cfr. art. 2328, ult. comma, in tema di s.p.a., con disposizione
suscettibile di essere estesa ad ogni altro tipo capitalistico e
alle cooperative, data la identità dei presupposti), a
dimostrazione che su ogni considerazione di ordine
storico-soggettivo deve prevalere per ragioni di certezza e
generale affidamento quanto risulta dal documento statutario quale
complesso delle regole tempo per tempo vigenti e facilmente
accertabili.
Il significato della singola clausola di rinvio deve allora essere
ricostruito alla luce del modo con il quale vengono richiamate le
norme di legge. Sotto tale profilo si danno le ipotesi:
(a) del rinvio generico alla legge tout court o alla normativa
regolante il tipo sociale interessato (es. rinvio alle norme in
tema di s.r.l. o di s.p.a.) o ad un determinato settore normativo
(es. norme in tema di controllo sulla gestione o di
obbligazioni);
(b) del rinvio a precisi articoli individuati con il proprio numero
(es. artt. 2486, 2370, 2410, 2372) o con altro sistema
identificativo, come la rubrica;
(c) del rinvio attuato mediante riproduzione integrale o sintetica
o parafrastica del contenuto di una disposizione, sia o no
preceduta o seguita dal richiamo all'articolo che la contiene (o la
conteneva).
Nelle ipotesi (a) e (b) quanto sopra rilevato porta ad aggiornare
il richiamo normativo sulla base delle modifiche intervenute,
applicando il diritto vigente alla data di applicazione della
clausola, quantunque difforme da quello vigente al tempo della sua
creazione e indipendentemente dal fatto che tale diversità emerga
per il rinvio a disposizioni ormai palesemente fuori contesto (il
rinvio agli artt. 2486 e 2410 va quindi oggi inteso come rinvio
agli artt. 2479-bis e 2412) o non emerga affatto (es. artt. 2370,
2372), se non in forza di inesigibili indagini storiche. Ciò a meno
che non risulti dallo
statuto medesimo una esplicita esclusione delle future modifiche
(derogabili) delle norme di rinvio, come avverrebbe ove vi fosse
una clausola statutaria che per singole ipotesi o in generale
precisasse che i rinvii alla legge ivi contenuti vadano intesi come
rinvii proprio alla legge esistente alla data di redazione dello
statuto o di particolari clausole (che allora dovrebbe
opportunamente risultare in statuto) con esplicito lecito rifiuto
di automatici aggiornamenti.
Viceversa nell'ipotesi (c) la riproduzione (totale, sintetica o
parafrastica) del testo normativo va oggettivamente interpretata
come opzione statutaria per il diritto dell'epoca, con esclusione
dell'automatico recepimento (ove consentito) di future modifiche, e
ciò indipendentemente dalle ragioni storiche per cui il redattore
della clausola si è orientato per quella riproduzione (le quali
potrebbero consistere nella volontà di rendere immodificabile per
via extraassembleare la regola prescelta, ma potrebbero anche
ridursi al solo scopo di più agevole rinvenimento e più sicura
memoria della re-gola di legge). Tali ragioni, infatti, per
definizione non contano per chi ritenga doveroso adottare un
criterio rigorosamente oggettivo di interpretazione del testo
statutario e debba allora rilevarne la portata letterale in modo da
tutelare l'affidamento che vi si può ragionevolmente riporre, di là
dalle difficilmente ricostruibili volontà di chi ne è
autore (le quali potranno semmai rilevare su altri piani, come
quello della pretesa, fondata sulla regola della buona fede, ad un
adeguamento dello statuto in linea con le volontà e gli accordi
iniziali). Anche in tal caso, è ovvio, l'attenta lettura del testo
statutario potrebbe capovolgere l'esito interpretativo, ove dallo
stesso fosse chiaramente e oggettivamente rilevabile che la
riproduzione della iniziale regola di legge non risponde
all'intento di escludere l'automatico recepimento delle sue future
evoluzioni.